Intro

Sono un fotografo amante del silenzio che tanto racconta di un luogo abbandonato, che ritrae attimi di vita dove essa non abita più.

Giovanni Falavigna in arte John Falavigna nato in Colombia nel 1983 e Italiano di adozione.
Fotograficamente combino il sentimento del mio passato, vissuto fino ai 12 anni in Sud America, con quello della mia vita attuale, e maturando le mie conoscenze a riguardo dò un senso al silenzioso vivere dei luoghi abbandonati dove tutti i miei sentimenti più forti si racchiudono in uno scatto.

Non sono fotografo di professione ma, come dice il grandissimo Steve McCarry

“Ognuno di noi può scattare fotografie: è un piacere, un modo per esprimersi e fissare i ricordi, un modo per esplorare il mondo ed essere creativo”

Work

“Divento un occhio trasparente, sono niente, eppure vedo tutto” Cit. Ralph Waldo Emerson

È John Falavigna stesso a darci la prima chiave di ingresso al significato intimo e profondo della sua ricerca, quando afferma che la base sta nell’esplorazione e nel recupero della memoria. Atteggiamento che rende la sua fotografia potente e drammatica, post-romantica, oltre le consuetudini visive delle esperienze comunemente definite “urbex”. Esplorare avidamente luoghi carichi di storia e di passato, fuori dagli itinerari convenzionali, è per John il più potente mezzo, il più tenace tentativo di contrastare l’abbandono e la solitudine, condizioni che si risolvono temporaneamente quando tramite uno scatto riesce a ristabilire, per pochi attimi, quel contatto indefinibile con il mondo che si trova a metà strada fra immaginazione, realtà, e memoria. Ma, la riappropriazione dello spazio e del tempo che John effettua, sebbene legata alla sfera più intima della sua vicenda biografica, segnata dalla memoria di un’infanzia complicata trascorsa in un paese lontano e indimenticabile come la Colombia, assume una portata molto più ampia quando gli scenari tratteggiati abilmente nei suoi scatti si incrociano con le nostre memorie collettive e individuali, assumendo così ai nostri occhi, definitivamente, i tratti della scrittura mitica. Di fatto, mythos, nella sua accezione metaforica, vuol dire nient’altro che filo, così, leggere le storie scritte nelle fotografie di John significa seguire un tracciato, il filo rosso di quella ringhiera foderata di velluto che compare in uno dei suoi scatti e che ci guida morbidamente ad inabissarci in un percorso orientato dall’alto verso il basso. Gli scalini della raffinata scala a chiocciola di ferro battuto in stile horta, con i levrieri che festosamente si rincorrono, una battuta di caccia, tracce che John generosamente ci lascia intravedere. Da una porta semiaperta scorgiamo la moltiplicazione degli spazi di cui la sua fotografia è capace, sono i segni scavati nella polvere di un antico specchio, mentre un orologio a pendolo è fermo al suo tempo, quello del modernariato. Le carte da parato o le stoffe damascate avvolgono le scene, testimoni dell’international style che imperava in una Europa che è esistita ed ancora esiste nascosta oggi in queste segrete dimore. Così anche il passato, non è mai passato del tutto, il rinascimento è cifra di confronto perenne, siamo invitati a sederci al banchetto del Cenacolo di fronte ad un inverosimile dipinto leonardesco, riproduzione pervasiva più dell’originale stesso. I ninnoli, le posaterie, gli strumenti da lavoro, ed il vestiario sono ancora lì dove il tempo ce li ha consegnati, rumorosamente muti, pronti ad essere riutilizzati, le sale da cerimonia si illuminano di una luce che fende l’oscurità, riflesso ultimo della purezza e del chiarore dipinte nelle annunciazioni del Beato Angelico. John giunge in questi luoghi come l’angelo dopo la deflagrazione ad annunciare qualcosa di nuovo, spesso a portare ordine dove regna il disordine, ci invita ad interrogarci sul significato di uno sconfinato patrimonio lasciato al completo abbandono, connotato di fascinazione e allarme: tutto quello che vediamo in queste foto potrebbe domani stesso non esserci più. Affrontare il gigante è l’ultimo compito, come Eracle restiamo fermi nella luce pomeridiana, anticipo del tramonto perfetto: l’orizzonte di Siracusa. La punta di una tonnara parla con il tufo color oro, il blu della lontananza è solo un’eco. È certamente Sicilia, quella che è sempre stata, dopotutto, anche ed inequivocabilmente Grecia.

Alfonso Fraia

 


 

“I become a transparent eyeball; I am nothing; I see all” Emerson Ralph Waldo

John Falavigna himself gives us the first key to access the intimate meaning of his photographic research when he states that the basis is the exploration and recovery of memories. An aspect that makes his photography powerful and dramatic, post-romantic, far from the visual habits of other experiences commonly defined as “urbex”. In John’s point of view, the exploration of places that are full of history and past, different from conventional routes, is the most powerful tool, the strongest attempt to prevent abandonment and solitude. Such psychic conditions are temporarily resolved when, through a click, he re-establishes, for a few moments, that indefinable contact with the world located between imagination, reality and memory. This re-appropriation of space and time, linked to the most intimate sphere of his biographical story, marked in turn by the memory of the difficult childhood spent in his unforgettable Colombia, takes a much wider meaning as soon as the scenarios, ski fully outlined in his shots, meet our collective and individual memories. From this point of view, his photography becomes similar to myth writing. In metaphorical terms, mythos means nothing but ‘thread’, so to read the stories written in John’s photographs, all you need to do is follow precisely that path that guides us gently from top to bottom. Following the refined wrought-iron spiral staircase made in Horta style, with greyhounds joyfully chasing each other, we also leave for a hunt on the traces that John generously lets us see. From a half-open door, we see the multiplication of spaces his photography is capable of, it is the signs dug in the dust of an ancient mirror, while a pendulum clock is stuck in its time, namely the time of modern antiques. Damask fabrics or wallpapers surround the scenes and are the witnesses of the modern style that prevailed in a Europe that existed and still exists today, hidden in these secret homes. The past has never completely passed, so Renaissance is a perennial comparison, and we are invited to sit at the banquet of the “Cenacle” in front of an unlikely painting by Leonardo. Another more pervasive reproduction than the original itself. Trinkets, cutlery, work tools, and clothing are still there where time has left them, noisily silent, ready to be reused. The dark ceremonial halls are lit up with a light that cuts the shadows and remembers the purity and light painted by Beato Angelico in his Annunciation. John arrives like an angel after the deflagration caused by life on these places to announce something new, often to bring order where disorder reigns. He invites us to ask ourselves about the meaning of this boundless heritage often left in a complete abandon, which certainly constitutes a connotation of secure fascination and alarm for the definitive disappearance of what his images show. Everything we see in these photos may not be there tomorrow. Facing this giant is the last task, like Heracles, we remain still in the light of the afternoon, ahead of the perfect sunset in front of the Syracuse’s horizon, the bow of a ‘tonnara’ speaks with the gold-coloured tuff and the blue, the distance makes an enchanted echo. It is certainly Sicily, the one that has always been, after all, also and unequivocally Greece.

Alfonso Fraia

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